La Cina al centro della diplomazia: dal Medio Oriente all’Ucraina
Successo con l’accordo Teheran-Riyad; mediazione difficile con Kiev
Roma, 12 apr. (askanews) – Una Cina di lotta e di governo, si potrebbe dire parafrasando una vecchia formula della politica: mentre “circonda” Taiwan con preoccupanti manovre militari, Pechino si propone come nuova capitale diplomatica del mondo. Un equilibrismo che le è riuscito piuttosto bene per quanto riguarda il Medio Oriente, mentre per capire l’effetto sulle relazioni con un player globale l’Europa dovremo attendere ancora un po’.
Non solo. Pechino ha anche rimesso il suo naso in America latina, con la visita in corso del presidente brasiliano Lula. E si ragiona di una ricalendarizzazione del viaggio nella Repubblica popolare del segretario di Stato Usa Antony Blinken, precedentemente previsto e cancellato a causa della crisi del “pallone” cinese che ha sorvolato diversi stati americani tra gennaio e febbraio di quest’anno. Sarebbe, in effetti, un passo importante verso un possibile nuovo summit tra il presidente cinese Xi Jinping e il capo dello stato Usa Joe Biden.
Il successo più evidente della diplomazia cinese, in questo primo scorcio del 2023, è stata la ripresa dei rapporti diplomatici tra due pluridecennali e acerrimi nemici nel mondo musulmano: il paese leader del mondo sciita, l’Iran, e il regno custode dei Luoghi sacri dell’Islam, l’Arabia saudita. Un riconoscimento reciproco che è stato fortemente sospinto dalla diplomazia della Cina e non a caso sancito con una storica firma a Pechino.
Più articolata la questione con l’Europa. Pechino è stata molto frequentata negli ultimi mesi da leader di grandi paesi europei. Alla fine dello scorso anno, il primo a recarvisi è stato il cancelliere tedesco Olaf Scholz; poi è arrivato alla fine del mese scorso il presidente del governo spagnolo Pedro Sanchez. Infine, la settimana passata è toccato al presidente francese Emmanuel Macron, scortato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. L’Ue, inoltre, tornerà a Pechino con Josep Borrell, il capo della diplomazia di Bruxelles, anche se la data è da definire: la visita era stata annunciata per il 13-15 aprile, ma l’Alto rappresentante della politica estera europea è risultato positivo al Covid-19 e dovrà quindi attendere.
Da un punto di vista economico, queste visite sono state un evidente successo, non però scevro da un’inquietudine. In effetti, l’Europa segna con questi approcci una differenza con l’alleato statunitense, che invece sembra più interessato a un “disaccoppiamento” (“decoupling”) economico con Pechino. Una prospettiva, questa, che non può essere accettata dai due estremi del continente euroasiatico, consapevoli che i loro destini sono stati per tutta la storia intrecciati e lo saranno sempre di più.
Ma questa è un’esigenza che entra fortemente in frizione con l’approccio Usa. Macron, tornato da Pechino, ha creato un pandemonio dichiarando ai giornali francesi che l’Europa non deve diventare “vassalla” degli Stati uniti e non deve farsi coinvolgere in un eventuale conflitto su Taiwan tra la Cina e gli Usa, per il quale “non avrebbe il tempo, i mezzi, l’economia”, mentre “diventerà il terzo polo (dell’ordine mondiale, ndr.) se solo avrà pochi anni per sviluppare” questo progetto.
Il punto di caduta, però, per Macron e per l’Europa, è l’atteggiamento della Cina rispetto alla guerra in Ucraina. Dall’inizio del conflitto, l’Europa ha sollecitato Pechino a esercitare la sua influenza su Mosca per aprire una via di dialogo. Per un anno, la Cina si è limitata a non aiutare militarmente la Russia, né a condannarla, ma non si è presentata come possibile mediatrice. Ma il 24 febbraio 2023 ha presentato il suo “position paper” in 12 punti sul conflitto ucraino e Xi Jinping è andato a proporlo a Vladimir Putin, che l’ha apprezzato. Invece, il presidente cinese non ha ancora parlato con il leader ucraino, Volodymyr Zelinsky, che sentirà “quando ci saranno le condizioni”, secondo quanto ha chiarito il ministero degli Esteri cinese.
Gli Usa hanno sostanzialmente snobbato lo sforzo cinese, non così Macron. Che, incontrando Xi nel suo vertice, gli ha detto di sapere di poter “contare su di lui per riportare la Russia alla ragione”. E la stessa von der Leyen ha sollecitato il presidente cinese ad assumere un ruolo negli sforzi per aprire una via politica per uscire dal conflitto. Ora, però, Pechino dovrà essere capace di riequilibrare la sua posizione tra Mosca e Kiev, se davvero vuole svolgere un ruolo di mediazione.
La Cina, storicamente, non apprezza le destabilizzazioni: potendo contare sulla sua massa d’urto, si vede come baricentro (il nome della nazione, “Zhongguo”, vuol dire appunto “Paese del Centro”) di un equilibrio su di lei basato. In linea con questa tradizione, Xi ha lanciato dal suo primo mandato (da ottobre dello scorso anno è entrato in un inedito terzo mandato) l’Iniziativa Belt and Road per l’apertura delle Nuove Vie della Seta.
L’azione mediatrice di Pechino, in questo senso, è globale, non solo incentrata sugli equilibri euroasiatici. Secondo il Mercator Institute, nel solo 2017 era impegnata nella mediazione di nove conflitti rispetto ai tre del 2012, prima che Xi diventasse il leader del paese. Inoltre la Cina è diventata uno dei massimi contributori di forze di peacekeeping Onu. L’approccio diplomatico cinese rivendica di essere “quello della non interferenza negli affari interni degli altri paesi, di non riempire i vuoti di potere altrui o di cercare l’egemonia”, ma di essere quello che “promuove dialogo e consultazioni per risolverele questioni”, come ha spiegato Zhu Weilie, direttore dell’Istituto di studi sul Medio Oriente presso l’Università internazionale di Shanghai al Global Times, facendo riferimento alla mediazione Teheran-Riyad.
Certo, un’eccezione è quella rappresentata da Taiwan. L’isola è considerata da Pechino parte integrante del proprio territorio e Xi ha chiarito in maniera lampante che la Cina non rinuncerà mai all’uso della forza per riprendersela, pur preferendo la via pacifica, e ha ordinato alle forze armate di esser pronta a un’eventuale invasione entro il 2027.
L’equilibrio, insomma, non è per la Cina a portata di mano, quanto meno a livello globale. A est Pechino si trova a dover affrontare una politica di contenimento promossa dagli Stati uniti, che vedono in Pechino il loro avversario strategico e prospettico per l’egemonia. I paesi vicini alleati di Washington – Giappone, Corea del Sud e le Filippine, appena tornate nelle braccia americane – si stano armando su input di Washington e stanno integrando le loro capacità militari, anche con l’ausilio dell’Australia e della Gran Bretagna. Inoltre, a sud c’è l’India, con cui Pechino ha aperta una caustica disputa territoriale e una storica ostilità. Questo è il punto debole che impedisce alla Cina una diplomazia che non sia presbite: funziona da lontano, ma non altrettanto nelle sue prossime vicinanze.
(di Antonio Moscatello)